Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me e non c'era rimasto nessuno a protestare.
(Bertolt Brecht)

martedì 7 agosto 2018

Rino Gaetano, un mito in autostop e la sua tragica fine


La leggenda breve del cantautore calabrese scoperto da Lucio Dalla, che lo caricò sulla sua Porsche. Fino alla sua morte nel 1981 in un incidente stradale come il suo idolo Fred Buscaglione

Rino Gaetano 
Rino Gaetano
A ripensarci, non c’è niente di più tristemente profetico di una canzone intitolata «Mio fratello è figlio unico» e scritta da un ragazzo che di lì a qualche anno rimarrà vittima di un incidente stradale. In realtà, è stato detto tante volte che il presagio più inquietante, nei testi di Rino Gaetano, è consegnato a «La ballata di Renzo», che racconta l’odissea di un giovane in fin di vita respinto da più ospedali romani: «La strada molto lunga / s’andò al San Camillo / e lì non lo vollero per l’orario./ La strada tutta scura / s’andò al San Giovanni / e lì non lo accettarono per lo sciopero...».
La tragedia
Canzone del 1971 che anticipava di dieci anni la tragedia che avrebbe vissuto lo stesso Rino, trentenne calabrese allegro, un po’ pazzoide e un po’ ribelle, dopo l’incidente avvenuto sulla Nomentana la notte del 2 giugno 1981, alle 3.55. Mentre tornava a casa sulla sua Volvo 343, Rino rimase travolto da un camion Fiat 650 che viaggiava in senso opposto all’altezza di via Carlo Fea. L’autista del camion, Antonio Torres, di anni 37, disse di aver visto l’auto sbandare paurosamente ad alta velocità e andare a sbattere contro la fiancata dell’autotreno.
Respinto dagli ospedali
Così raccontò la cronaca del «Corriere» il giorno dopo: «Soccorso dagli agenti della polizia stradale di Settebagni, il cantautore veniva portato in gravi condizioni all’ospedale». Sarebbe morto alle sei del mattino. Ma come il Renzo della canzone, anche Rino era stato respinto da diversi ospedali che non erano in grado di accogliere un uomo con il cranio sfondato. Il «Messaggero» precisò che l’ambulanza (dei Vigili del Fuoco) aveva chiesto ospitalità al Gemelli, al San Filippo Neri, al San Giovanni, al Cto della Garbatella, al San Camillo. Invano. Il Policlinico, l’ultima spiaggia, non era attrezzato per interventi di neurochirurgia, come ammise il direttore sanitario dell’ospedale. Quindici giorni dopo, Rino avrebbe dovuto sposare Amelia, la sua fidanzata di Fondi. Partì un’inchiesta, che sarebbe stata archiviata dopo dieci anni. «Come Buscaglione», titolarono i giornali. Nessuno scrisse: come Renzo.
Come Buscaglione
Salvatore Antonio Gaetano, detto Rino, nato a Crotone il 29 ottobre 1950, a dieci anni arriva a Roma, con un fratello, una sorella, un padre e una madre in cerca di lavoro. Il padre riesce a sistemarsi come portinaio in un palazzo di Monte Sacro e Rino non vuole saperne di studiare: ha in testa la musica, a vent’anni comincia a scrivere e a suonare da «autodidatta della chitarra», come si è sempre definito, con una passione particolare per il «duro di Chicago», Buscaglione, figlio a sua volta del portinaio di Piazza Cavour 3 a Torino e morto giovane anche lui, proprio in quel 1960 in cui Rino si trasferisce nella capitale, per uno schianto in auto (una Ford Thunderbird rosa) contro un camion, anche lui spirato al Policlinico, dove fu portato agonizzante dal primo autobus che passava. Tante coincidenze. Come l’incontro di Gaetano con Lucio Dalla in autostrada: il ragazzo meridionale, ancora sconosciuto, fa l’autostop verso Roma con una chitarra in mano e il cantautore già famoso lo carica sulla sua Porsche. Da lì, l’ingresso nella casa discografica It, quella di De Gregori, Cocciante e Venditti. 


 

 

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