La leggenda breve del cantautore calabrese scoperto da Lucio Dalla, che lo caricò sulla sua Porsche. Fino alla sua morte nel 1981 in un incidente stradale come il suo idolo Fred Buscaglione

Rino Gaetano
A
ripensarci, non c’è niente di più tristemente profetico di una canzone
intitolata «Mio fratello è figlio unico» e scritta da un ragazzo che di
lì a qualche anno rimarrà vittima di un incidente stradale. In realtà, è
stato detto tante volte che il presagio più inquietante, nei testi di
Rino Gaetano, è consegnato a «La ballata di Renzo», che racconta
l’odissea di un giovane in fin di vita respinto da più ospedali romani:
«La strada molto lunga / s’andò al San Camillo / e lì non lo vollero per
l’orario./ La strada tutta scura / s’andò al San Giovanni / e lì non lo
accettarono per lo sciopero...».
La tragedia
Canzone
del 1971 che anticipava di dieci anni la tragedia che avrebbe vissuto
lo stesso Rino, trentenne calabrese allegro, un po’ pazzoide e un po’
ribelle, dopo l’incidente avvenuto sulla Nomentana la notte del 2 giugno
1981, alle 3.55. Mentre tornava a casa sulla sua Volvo 343, Rino rimase
travolto da un camion Fiat 650 che viaggiava in senso opposto
all’altezza di via Carlo Fea. L’autista del camion, Antonio Torres, di
anni 37, disse di aver visto l’auto sbandare paurosamente ad alta
velocità e andare a sbattere contro la fiancata dell’autotreno.
Respinto dagli ospedali
Così
raccontò la cronaca del «Corriere» il giorno dopo: «Soccorso dagli
agenti della polizia stradale di Settebagni, il cantautore veniva
portato in gravi condizioni all’ospedale». Sarebbe morto alle sei del
mattino. Ma come il Renzo della canzone, anche Rino era stato respinto
da diversi ospedali che non erano in grado di accogliere un uomo con il
cranio sfondato. Il «Messaggero» precisò che l’ambulanza (dei Vigili del
Fuoco) aveva chiesto ospitalità al Gemelli, al San Filippo Neri, al San
Giovanni, al Cto della Garbatella, al San Camillo. Invano. Il
Policlinico, l’ultima spiaggia, non era attrezzato per interventi di
neurochirurgia, come ammise il direttore sanitario dell’ospedale.
Quindici giorni dopo, Rino avrebbe dovuto sposare Amelia, la sua
fidanzata di Fondi. Partì un’inchiesta, che sarebbe stata archiviata
dopo dieci anni. «Come Buscaglione», titolarono i giornali. Nessuno
scrisse: come Renzo.
Come Buscaglione
Salvatore
Antonio Gaetano, detto Rino, nato a Crotone il 29 ottobre 1950, a dieci
anni arriva a Roma, con un fratello, una sorella, un padre e una madre
in cerca di lavoro. Il padre riesce a sistemarsi come portinaio in un
palazzo di Monte Sacro e Rino non vuole saperne di studiare: ha in testa
la musica, a vent’anni comincia a scrivere e a suonare da «autodidatta
della chitarra», come si è sempre definito, con una passione particolare
per il «duro di Chicago», Buscaglione, figlio a sua volta del portinaio
di Piazza Cavour 3 a Torino e morto giovane anche lui, proprio in quel
1960 in cui Rino si trasferisce nella capitale, per uno schianto in auto
(una Ford Thunderbird rosa) contro un camion, anche lui spirato al
Policlinico, dove fu portato agonizzante dal primo autobus che passava.
Tante coincidenze. Come l’incontro di Gaetano con Lucio Dalla in
autostrada: il ragazzo meridionale, ancora sconosciuto, fa l’autostop
verso Roma con una chitarra in mano e il cantautore già famoso lo carica
sulla sua Porsche. Da lì, l’ingresso nella casa discografica It, quella
di De Gregori, Cocciante e Venditti.
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